martedì 29 dicembre 2009

Charles Baudelaire, tra decadenza e nobiltà poetica.

XXXVIII

Un Fantasma

1 Le Tenebre:

Nelle cave d’ insondabile tristezza
dove il Destino già m’ ha relegato,
dove mai entra raggio roseo e gaio,
dove solo con quell’ ospite rude ch’ è la Notte

sono come un pittore condannato
da un beffardo Dio a dipingere sulle tenebre,
dove, cuoco di funebri appetiti,
faccio bollire e mangio questo cuore,

a tratti brilla, s’ allunga e si distende
uno spettro fatto di grazia e di splendore.
Ma quando assume la sua massima estensione,

con quell’ orientale sognante sua andatura,
allora si che riconosco chi mi viene incontro:
è Lei, la mia bella, nera ma sempre luminosa!

Tratto da:
“Les Fleurs du mal”
(sezione 1, “Spleen et ideal”)

La poesia sopra riportata, è un sonetto del poeta francese Charles Baudelaire, vissuto a cavallo tra le due metà del IXX secolo, ovvero un’ era di forti contrasti, discrepanze e paradossi sociali, ma anche di nuovi impulsi e ideali come il socialismo di Karl Marx e Friedrich Engels e l’ anarchia di Bakunin, alla quale per certi versi si accosta lo stesso poeta.
Considerato il padre del Decadentismo e della poesia moderna, visse un’ esistenza traviata dal dolore, che cercava di sopprimere, soffocare o dimenticare, mediante una vita di sprechi ed eccessi, e anche di avvicinamento all’ alcool e alla droga.
Ma “Charlie” non è solo questo, la morte del padre e la oppressione dal patrigno, l’ ipocrisia e il bigottismo di una società eccessivamente borghese, incapace di carpire il suo genio, la sua raffinatezza e nobiltà, lo fecero naufragare a questa dimenticanza, attuata e vissuta come reazione anticonformistica, dapprima contro il nefasto mondo e poi pure contro il destino e Dio stesso.
Tuttavia anche se figura nobile, il poeta fa parte di questo sistema e quindi partecipa al sapore per il vizio e la “ decadenza”. Sapendo di non poter attingere sulla terra ad un gusto superiore, quello di bellezza e purezza, si spiga così la ricerca del dolore teso all’ annientamento e la tendenza deleteria all’ autodistruzione e all’ oblio, attraverso gli abnubilanti fumi del vino e dell’ oppio.
In linea generale questo il senso de “Les Fleurs du mal”, che non trova logica se non nella trascendenza dei luoghi, ove astrattamente si svolge l’ azione: la discesa dal Paradiso sulla Terra, per poi precipitare all’ Inferno.
E’ qui che la critica crocifigge Baudelaire, non perdonandogli la sua vocazione al male, raffigurandolo blasfemo e satanista; non per niente i suoi libri furono condannati dalla Chiesa.
In realtà la curiosità e l’ andare controcorrente lo conducono a tale posizione: il poeta frustrato dai continui scherni del mondo, si appella al rifugio di un Dio che non perdona, bensì giudica e condanna (ma al quale Baudelaire è devoto) e lo relinque a dannarsi il corpo; la morte sarà dunque sia una liberazione dagli incessanti mali e dalle imperterrite sofferenze mondane, che la porta verso una via ignota da percorrere.
Purtroppo questo raffinato poetare non viene apprezzato da un pubblico troppo polemico e pieno di preconcetti e pregiudizi, incapace di capire fatti ed idee sotto altri aspetti e di essere più introspettivo.
In questo primo capitolo il poeta è raffigurato come una figura nobile, un angelo decaduto sul mondo, vacillante tra la tendenza al “puro” e al richiamo dell’ abisso in cui annegherà, abbandonato da Dio. Proprio in tale contesto si paragona all’ albatro: magnifico uccello quando vola in cielo, sopportando con tranquillità le intemperie, ma goffo e brutto quando si posa sulla nave e viene deriso, essendo oggetto di scherno per i marinai, poiché non comprendono il suo ruolo e il suo valore.
In tal maniera la poesia baudeleriana emette radici in ogni componimento, spaziando dall’ amore al vizio e al macabro, che rappresenta in un quadro alternativo. Essa può apparire schietta e senza mezzi termini e dispiace nuovamente contraddire
l’ opinione pubblica; non è così.
La prova lampante è il sonetto ivi proposto; difatti “odora” di pittorico e sublime, sembra quasi di poter vedere le tetre e ambigue sfumature paesaggistiche che offre.
Il poeta dipinge una situazione a prima lettura solo metafisica e deviante, poiché il lettore fallaceamente può intuirla in tal maniera; invece è colma di allusioni e parallelismi con luoghi e persone reali, il tutto affibiato ad una eccelsa perizia retorica, caratteristica dell’ autore.
Il tema principale, ovvero le tenebre, è facilmente depistabile; perché si tratta di una bivalenza: da un lato la notte vera e propria, in quanto condizione temporale,
dall’ altro la visione della propria compagna, Jeanne Duval (un’ attrice mulatta, che gli rimase accanto sino alla morte), si sfocia quindi nell’ aleggiante figura del fantasma, con notevole sfoggio di misticismo.
L’ autore descrive la sua malsana condizione fisica e il confinamento agli spazi chiusi, puntando il dito contro il destino ( versi 1-2, 5-6, si trova una ripetizione di significato); ricercando rifugio nel “fantasma della notte”, unico suo vero amore, con la quale non gli rimane che consumare i suoi piaceri sessuali, mentre la vita gli sfugge via. La grande abilità descrittiva è mostrata nelle ultime due strofe, dove nel caos della voluttà egli pone un etero disegno della compagna, mediante gli elementi strettamente in correlazione di oscurità, ombre e spiragli di luce, che giocano sulla visione e sul profumo della donna.
Baudelaire si riavvicina alla tematica del “gothic-noire”, già sperimentata da Edgar Allan Poe, scovando nella bellezza e nel sapore per le tenebre l’ unico ultimo rifugio.
La smisurata presenza di figure retoriche (bivalenze, metafore, similitudini, analogie, personificazioni, sinestesie e parallelismi, anafore) rende pure la sua poetica uno sfarzo di morali e doppi sensi; ma d’ altronde fu lo stesso Baudelaire ad affermarlo: << La bellezza è sempre bizzarra >>.  

Pietro Ingallina

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